[vc_row][vc_column][vc_column_text]Il conseguimento degli obiettivi di un’azienda può passare – e lo fa sempre più spesso – per il brand activism. Si tratta di un’evoluzione strategica delle marche, che fa leva su scelte a livello di responsabilità sociale, ambientale o di governance.
In sostanza, il brand activism è il filo rosso che connette una marca alle più complesse dinamiche contemporanee, facendogli prendere una posizione netta. Che, però, non deve mai mancare di armonia con gli utenti finali.
Cos’è il Brand Activism
Cosa si intende, precisamente, per brand activism? A definire questa strategia di comunicazione sono stati Philip Kotler e Christian Sarkar. I due autori, nel 2018, hanno scritto il più importante libro sul tema, Brand Activism. From purpose to action.
In questo libro, la definizione di brand activism è la seguente: “volontà chiaramente esplicitata di partecipare a cause in ambito sociale, oltre che di assumersi precise responsabilità in merito al raggiungimento di quello che viene considerato bene comune”.
Alla luce di tale definizione, si potrebbe azzardare che fare del bene è diventato il massimo vantaggio competitivo. Lanciare la propria azienda nella giusta direzione potrebbe significare farle assumere un’aura dorata e distintiva.
Tuttavia, le cose non sono mai bianche o nere. Le operazioni di brand activism possono tanto fare guadagnare un posto nella cultura popolare, migliorare la reputazione e aumentare le quote di mercato, quanto suscitare indignazione pubblica e portare al boicottaggio.
La posta in gioco, quando si decide di prendere una posizione, è sempre alta. E il successo dell’operazione deriva sia dalla conoscenza dei propri utenti che dalla conversione dello scopo del brand in azione netta e tangibile.
Esempi di Brand Activism
L’ultimo decennio ha visto crescere esponenzialmente i casi di brand activism. Negli USA è esemplare il caso di birra Stella Artois. Si tratta di uno degli esempi virtuosi, che è riuscito a non suscitare polemiche e a colpire nel segno in maniera del tutto positiva.
Con “Buy a Lady a Drink“, Stella Artois ha stretto un accordo con Water.org per aiutare a sensibilizzare sulla crisi globale dell’acqua. Per rafforzare la campagna pubblicitaria, ha creato dei calici in edizione limitata, progettati da artisti emergenti.
L’acquisto di questi calici è stato devoluto quasi interamente a Water.org, che ha lavorato attivamente per fornire un accesso di cinque anni all’acqua potabile per una fetta di persone che vivono nei paesi in via di sviluppo. Stella Artois, inoltre, ha avvisato una donazione collaterale diretta a Water.Org. Con la sua iniziativa, ha fornito acqua potabile a oltre 1 milione di persone.
Più rischiosa, sempre negli USA, è stata la scelta di Yogurt Yoplait: l’argomento toccato è stato decisamente più divisivo. Il brand ha infatti deciso di prendere posizione sul ruolo della mamma. Yoplait ha fatto leva sui giudizi dati alle madri su come essere buone genitrici e/o sulle cose che dovrebbero o non dovrebbero fare, oltre che sull’allattamento al seno.
Il caso è esemplare per il modo in cui si è lanciato nel dibattito uscendone vincitore: nonostante una parte di critiche, il marchio ha registrato un aumento del 1,461% dell’interesse generale e gli acquisti da parte del genere femminile sono cresciuti del 33%.
In Italia, un esempio di brand activism è quello di Vogue. A gennaio del 2020 la nota testata ha deciso di schierarsi a favore del rispetto dell’ambiente. Per farlo ha deciso di ridurre esponenzialmente il numero di photo-shooting: limitando le immagini fotografiche, riduce infatti l’impatto sulla natura.
Nel numero di gennaio sono stati usati solo disegni e illustrazioni, mentre per i mesi a seguire si è cercato di alternare le cose, al fine di lanciare un segnale forte all’industria della moda. Per finire, Condé Nast Italia (la multimedia company che include Vogue) ha deciso di realizzare la rivista in materiale compostabile e biodegradabile.
Pro e contro del Brand Activism
Come abbiamo già accennato, il brand activism può essere un’arma a doppio taglio. Esponendosi su problemi sociali, economici, ambientali o politici, le aziende prendono decisioni che possono tanto innalzare quanto schiacciare il marchio, in maniera estremamente rapida.
Da una parte, è un dato di fatto che sposare determinate cause aiuta a umanizzare il brand, concetto teorizzato da Kotler nel suo libro “Marketing 4.0”. Schierarsi e convertire le proprie idee in azioni concrete (vedasi per esempio la campagna H&M Conscious, che ha dato vita a collezioni di moda a basso impatto ambientale) è una spinta propulsiva verso larghe fette di pubbico.
Dall’altra parte, è altrettanto vero che le cause devono essere scelte in maniera oculata. Paradossalmente, si tratta più di una questione di ragione che di cuore, che segue più le logiche del marketing che quelle della solidarietà o della compassione.
Se vogliamo guardare, pere esempio, ai risvolti negativi di questo concetto basta fare riferimento alla campagna pubblicitaria Race Together di Starbucks. Nel 2018, nell’ottica del dibattito sull’inclusione delle razze, il CEO di Starbucks ha infatti deciso di prendere posizione.
Per farlo, ha annunciato che tutti i baristi di Starbucks avrebbero scritto l’hashtag #racetogether sulle tazze e avrebbero eventualmente discusso della questione con i clienti. I commenti sui social, però, sono stati impietosi: i riferimenti al fatto che Starbucks sia effettivamente nata da storie di oppressione si sono moltiplicati.
In più, è stata mossa all’azienda l’accusa di aver respinto più volte persone di colore (con tanto di video) ed è stato fatto presente il fatto che il colosso conti tutt’ora su un sistema di salari non esattamente al top. Questo ha portato a un post di scuse su Twitter.
We apologize to the two individuals and our customers for what took place at our Philadelphia store on Thursday. pic.twitter.com/suUsytXHks
— Starbucks Coffee (@Starbucks) April 14, 2018
Altrettanto indicativa è stata la scelta di AirBnb di schierarsi contro il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a seguito della stretta sull’immigrazione. A fronte di una posizione così netta, il colosso degli affitti online ha subito un calo di popolarità negli USA, registrando delle perdite piuttosto ingenti.
Chiaramente, molti marchi sono consapevoli di quanto sia alto il rischio del brand activism. Guardiamo, per esempio, alle aziende che si espongono sui diritti LGBT: è noto che una fetta di pubblico non vedrà questa presa di posizione di buon occhio, ma in alcuni casi il rischio è talmente calcolato da rientrare nella strategia pubblicitaria finale.
Esempio lampante è quello di Diesel, che nel 2019 ha celebrato il mese dell’orgoglio gay. La grossa perdita di follower su Instagram si è trasformata, per l’azienda, in un’occasione per pubblicizzarsi ulteriormente, usando un post che festeggiava l’abbandono in massa degli utenti e li salutava in maniera piuttosto ironica.
Al di là dei pro e dei contro, resta inteso che uno dei più grossi problemi che possono capitare a un’azienda è il mancato allineamento con i valori del cliente. Nell’ottica di qualsiasi scelta di brand activism bisogna, dunque, ricordare che camminare di pari passo con gli ideali del pubblico significa centrare uno degli obiettivi di comunicazione più importanti.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]