[vc_row][vc_column][vc_single_image image=”7915″ img_size=”full” alignment=”center”][vc_column_text]In una recente intervista a L’Espresso, il “guru” della comunicazione David Shing ha affermato che il marketing è ormai morto. Una provocazione dietro la quale si cela un interessante ragionamento che Shing sviluppa sulle mutazioni del modo di fare pubblicità. In particolare viene rilevato come sia ormai preponderante il ruolo delle “nicchie” che i professionisti del settore, definiti “promotori di ecosistemi”, devono saper gestire.
Ecco il testo dell’intervista:
David Shing in una foto postata su Twitter Una signora fa la spesa al supermercato. Scelto un detersivo, fa per metterlo nel carrello quando un allegro signore si avvicina di scatto e cerca di sottrarglielo. In cambio, offre ben due confezioni di un prodotto simile, ma anonimo. Lei, rifiuta, difende la sua scelta “di marca”, poi se ne va felice. Sipario.
Chiunque abbia più di trent’anni conosce questo spot e i suoi mille cloni, così simili e così falsi, figli di un’epoca in cui si credeva a tutto ciò che passava in televisione. Una réclame nata negli anni in cui il marketing campava di rendita controllando tutta la filiera della comunicazione, dalla creazione di un messaggio alla sua trasmissione al pubblico (allora ancora inerme), da bombardare a ripetizione attraverso i media tradizionali finché non fosse convinto a comprare questo o quello.
Chiunque abbia più trent’anni ha visto cambiare il mondo e sa che quella appena descritta è preistoria. Che ormai «l’interazione tra brand e persone è, e sarà sempre di più, storytelling, racconto che coinvolge, che insegna, che trasmette valore e quindi lega positivamente coloro che sono in ascolto a questo o quel prodotto, servizio, marchio». Che deve saper trasformare «il cliente in evangelist, in utente entusiasta a sua volta desideroso di diffondere il “verbo”».
David Shing, l’aspetto di una rockstar e le parole di un attento osservatore del web, è “digital prophet” per il colosso statunitense Aol.com. Gambe accavallate, sorriso aperto, mi siede di fronte mentre afferma categorico: «Nel mondo odierno non serve o non basta essere una super azienda internazionale che investe milioni in advertising per raggiungere e coinvolgere veramente l’audience con il racconto giusto. Tutti possono riuscirci se hanno l’idea giusta, se sanno pensare in modo differente dagli altri». La rivoluzione, insomma, è già andata in scena. Meglio andare subito al punto.
Che cosa è cambiato?
«Per esempio, il fatto che oggi le persone sono in rete ed è lì che scelgono in modo nuovo e collaborativo cosa comprare, attingendo informazioni attraverso mille diversi canali. Tutto questo imporrebbe alle aziende scelte di marketing e comunicazione molto diverse rispetto al passato, mentre invece i brand trovano ancora oggi addirittura confortante spendere la maggior parte del proprio budget investendo nei media tradizionali. Si vede che hanno bisogno di credere che questa strategia funzioni ancora. Peccato che i numeri in mio possesso mi dicano qualcosa di molto diverso. Prima il digitale era qualcosa di residuale, in cui si investiva quello che rimaneva. Poi è diventato qualcosa da comprare come i vecchi media. Ma i nuovi media cambiano velocemente richiedono attenzione, comprensione: chi avrebbe mai immaginato che si poteva fare pubblicità in sei secondi, come avviene con Vine? Oggi i Brand possono coinvolgere gli utenti in un modo completamente diverso e molto più profondo che non prima, però devono capirlo e volerlo davvero».
La rivoluzione in atto è globale?
«Alcune regioni e Paesi sono ancora molto indietro. In Asia per esempio, dove l’adozione della tecnologia è veloce ma non lo è altrettanto il cambiamento culturale che essa porta in dote, l’advertising è ancora molto tradizionale. Certo, quei luoghi presentano anche grandi opportunità per chi saprà muoversi in anticipo, per chi saprà guardare avanti. Il consiglio che do a chi gestisce il media budget nelle aziende è di destinare una parte ai media tradizionali – così non viene licenziato – ma di tenersene anche una parte per sperimentare. In questo modo si conquisterà lo spazio per innovare e pensare diversamente in un mondo che è già cambiato».
Chi porta il cambiamento in azienda?
«Se guardo alle grandi compagnie, vedo un top management che resta all’oscuro, non vuole sapere, anzi ha paura. Per loro fortuna, ai piani più bassi ci sono operativi di talento che sperimentano, fanno quello che vogliono, e che per questo sono liberi di capire dove va il futuro. Sono loro che, non senza difficolta, innovano».
Oggi riusciamo a misurare l’impatto di queste nuove pratiche? A pesare il valore di una relazione?
«Innanzitutto c’è un problema più generale di come misuriamo le cose: se per esempio vogliamo quantificare l’impatto che l’uso dei social ha per ogni brand, dovremmo aver cura di creare un misurazione ad hoc almeno per ogni categoria di prodotto, invece si fa tutto allo stesso modo.
Il secondo problema è che la maggior parte dei decisori pensa oggi che l’advertising fatto sui media tradizionali funzioni ancora, mentre io non credo affatto che sia vero. Di certo, le metriche in nostro possesso non sono affidabili come credevamo in passato. Il bello dei nuovi media, invece, è che possiamo capire qual è il “sentiment”, l’opinione generale degli utenti rispetto a questo o a quel brand. Se un’azienda lavora molto con il digitale, allora può capire come cambia il sentiment dei clienti. Si passa da una pubblicità persuasiva e insistente all’aggiungere valore su valore per coinvolgere i cliente».
La rivoluzione è in atto. L’unica chance è esserne parte. Ma ci sono degli aspetti negativi di cui è bene tenere conto?
«Sì, ma sono di gran lunga inferiori a quelli positivi. Una delle criticità nasce ad esempio dal fatto che l’industria del digitale non ha fatto un lavoro sufficientemente buono per gestire e risolvere le giuste istanze relative alla fiducia e alla privacy, facendo in modo che gli utenti diventassero sospettosi, specie quando si tratta di cedere i propri dati. Se io ti do i miei dati e tu li usi per restituirmi un’esperienza più “ricca”, allora sono portato a darti ancora più dati. È un circolo virtuoso. Il problema è: ci fidiamo di questo sistema? Forse non ancora abbastanza, ma è anche vero che tutto questo mondo ha solo 25 anni d’età. I giornali sono in giro dal 1800, mentre il mondo dei social è nato ieri. E’ tutto troppo nuovo. Ci sono aspetti negativi, ma li risolveremo, siamo solo giovani.
Cosa riserva il futuro dell’advertising?
Il destino dei brand, e il loro stesso successo, dipende da quanto e come sapranno creare esperienze, non advertising. E questo significa che dovremo fare pubblicità in un modo completamente diverso: se prendiamo l’esempio di YouTube, il futuro non può essere nelle pubblicità che vedete prima e dopo un video. Il futuro sarà nel fatto che il video stesso sarà una nuova forma di pubblicità che voi desiderate vedere, perché vi porta valore.
Dal lato dei consumatori ci saranno sempre più nicchie: prima avevamo pochi posti dove andare in rete, poi la rete si è aperta ed espansa, ora siamo tornati ad andare in due o tre posti, tra cui YouTube, Twitter, Facebook. Presto verranno di nuovo le nicchie, tantissime e tanto diverse. E’ un processo ciclico, e le aziende dovranno imparare ad essere in quelle nicchie.
Questo cambierà radicalmente il lavoro di chi fa marketing…
«Il marketing come lo conosciamo svanirà, e i professionisti del settore diventeranno “promotori di ecosistemi”, specializzati nella gestione di una molteplicità di nicchie».[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]